Agostino parla di sé, parla della creazione, e nel suo microcosmo di uomo ritrova il macrocosmo del mondo e del divino. Nelle sue riflessioni, nei suoi ricordi, nelle sue confessioni umane, troppo umane, come ha detto Fontaine ricordandosi di Nietzsche - ironia della sorte, quel medesimo fustigatore della morale che in quest'opera ritrovava «falsità e retorica sorpassata» - si delinea per contrasto quella che Michele Pellegrino ha definito «un'autobiografia di Dio». L'uomo si rivolge nella propria interiorità e vi trova già insediata la divinità. «Quando prego gli parlo, quando leggo egli mi parla», scriveva Cipriano. E' così anche per le Confessiones. E la cosa più bella, anche per me che non sono cattolica, è che in questo continuo gioco di rimandi tra l'io e il dio si riflette proprio l'idea che per Agostino è stata più difficile da capire e da accettare: nelle parole del retore di Tagaste acclamato vescovo a furor di popolo, la parola si fa carne, la carne si fa logos. Verbum caro factum est.
Nessun commento:
Posta un commento